Modella per i grandi marchi della moda e attrice, oggi vorrebbe dedicarsi ad anziani o bambini, perché l'essenziale nella vita sono i rapporti umani
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Aomi Muyock Sessions nasce in Ticino nell’89. Si sarebbe dovuta chiamare Naomi, ma quando sua madre la vide la trovò molto rotondetta e pensò che la “n” iniziale fosse di troppo. Il suo secondo nome, Muyock, appartiene a un piccolo fiore cinese ed è quello della nonna paterna. Le ascendenze di Aomi sono molteplici: suo padre, americano, dal lato materno è metà cinese e metà africano e da parte di padre è un terzo cherokee, un terzo portoghese e un terzo scozzese. Entrambi i genitori e un fratello di Aomi sono artisti visivi. Anche per lei l’estetica è importante.
Aomi ha avuto un cammino particolare che l’ha vista, fra Milano e Parigi, posare come modella davanti all’obiettivo di fotografi quali Patrick Demarchelier, Annie Leibovitz e Giovanni Gastel. Ciò detto, a oggi della moda sembra importargliene, se non poco o niente, il giusto. Ed è questo il principale argomento della nostra conversazione.
Non ho conosciuto Aomi attraverso la Calvin Klein o una campagna Prada. A farci incontrare è stata un’amicizia comune, che ha segnato entrambi negli anni dell’adolescenza e della quale ho raccontato nel podcast RSI Droga, yoga ed HIV. Storia del mio amico Albi. Quando ci siamo visti perché raccogliessi una sua testimonianza al riguardo, mi è apparsa molto diversa dalla donna che ho scoperto in posa per i grandi marchi. Senza trucco, con un che di selvatico addosso, non aveva nulla, per me che nulla ne so, della fotomodella: non portava capi firmati, vestiva in modo semplice, non sembrava desiderosa di accaparrarsi lo sguardo altrui. Trascorso del tempo da quel primo scambio, prima di decidersi a concedermi una vera e propria intervista – ma ora sul suo percorso – Aomi ci ha messo un po’. Poi, alla fine, si è decisa e mi ha dato appuntamento a Leontica, dove alloggiava per un breve soggiorno.
«Giovanissima, mi sono ritrovata a dover interrompere gli studi per ragioni finanziare. Alcuni anni prima, mentre ero al mare, un agente mi aveva avvicinata domandandomi se volessi fare la modella. Risposi di no. Ma dopo, di fronte alle difficoltà, mi dissi che poteva essere una strada. Mi trasferii quindi a Milano, da sola, ancora adolescente, dove cominciai a lavorare per l’agenzia Beatrice Models Management. La sera mi arrivava una e-mail con una lista di appuntamenti; solitamente dai 7 ai 14. Dopodiché il giorno seguente ero in ballo. Allora le riconoscevi tutte, le modelle: andavamo in giro con la cartina di Milano, schizzando da un casting all’altro, in attesa di essere selezionate. Terminata la maratona la sera venivo contattata dall’agente, che mi diceva se ero stata presa “in opzione” per un lavoro; “in opzione” significa che ti hanno scelta assieme a delle altre. A quel punto dovevo tornare per un secondo incontro, durante il quale veniva fatta una nuova valutazione. Dopodiché dovevo ancora aspettare (magari alcuni volevano rivedermi, per farmi provare dei vestiti). Infine, se la cosa funzionava, venivo chiamata. Ero fortunata, perché accadeva spesso. Deve essere per questo che mi hanno spedita a Parigi, dove ho continuato questa vita».
«Abbastanza terribile» è l’espressione che usa Aomi per descrivere l’ambiente di certi casting durante i quali accade di sentirsi sotto un bieco giudizio anche su aspetti che esulano dal lavoro. «“No, ma guarda com’è venuta vestita questa”, mi è capitato di sentir dire. Ma voglio dire, che importa? D’altra parte i vestiti non ce li devono dare loro?», mi racconta ripensando a quel periodo.
La sola soddisfazione che Aomi abbia ricevuto in questo campo, oltre a quella di potersi guadagnare da vivere presto e di viaggiare, è stata di sentire contente le persone che avevano trascorso una giornata di lavoro con lei: «Certo il carattere fa. Alla fine chi ti sceglie preferisce passare del tempo con qualcuno di gentile piuttosto che con una rompipalle. Ma più e più volte mi sono sentita molto in difetto. Mi dicevo: “Ricevo soldi per fornire, mediaticamente, l’immagine della donna più sbagliata che esista”. Senza contare che, quando esci dall’ambito della moda, comunque per il mondo non vai mai bene: sei troppo magra. E se nel mondo della moda rientri, è lo stesso: sei troppo grassa. Insomma, anche se presto ci ho fatto il callo e mi ritengo abbastanza corazzata, credo che tutto questo un segno lo lasci. Se è vero che l’essere guardati, e di conseguenza riconosciuti, è un aspetto fondamentale della nostra natura di umani, personalmente non è lì che mi sono sentita vista. Anche perché non ho scelto questa strada per ambizione, ma per necessità. Col senno di poi posso dire di essermi “lasciata rapire” in un momento importante del mio sviluppo, mettendo da parte altro che avrei preferito coltivare e che, non essendo ancora sufficientemente strutturata, ho trascurato. Quello che mi ha salvata sono stati gli amici. Infatti quando non lavoravo avevo frequentazioni completamente diverse».
Nel 2015 Aomi esordisce come attrice sul grande schermo in Love, lungometraggio del regista argentino Gaspar Noé presentato quello stesso anno al Festival di Cannes. A questo lavoro segue Jessica Forever (2018), film indipendente di Caroline Poggi e Jonathan Vinel. Dopodiché le esperienze cinematografiche si esauriscono, un po’ per mancanza di interesse nelle proposte che le vengono fatte e un po’ perché, in fondo, Aomi riconosce che la recitazione, da lei appresa direttamente sul set, non è la sua grande passione.
«Sarei anche rimasta nel cinema, ma coprendo un altro ruolo. Di proposte ne sono arrivate, ma – fatta qualche eccezione – il più delle volte non mi interessavano. E poi come attrice non amo l’esposizione che segue alla prima: i gossip, le interviste, gli incontri. Tutte cose importantissime per il mercato dell’opera, ma non per me. Senza contare che avendo avuto, con Love, un debutto “eclatante”, che mi vedeva protagonista di un film dai contenuti forti, in alcune occasioni mi sono sentita etichettata e non mi è piaciuto. Credo che adesso mi interesserebbe lavorare con gli anziani, oppure coi bambini, magari mettendo un po’ da parte quello che ho fatto. Vorrei anche raccontare ai ragazzi di oggi la mia esperienza di crescita, perché – non c’è niente da fare – a causa della grande esposizione mediatica a cui è stata sottoposta la mia immagine a volte mi sono sentita come derubata di un pezzo della mia identità. Quando penso al mio vissuto e guardo il mondo che ora mi circonda, dove i bambini sono lasciati a loro stessi con TikTok alla mano, ho paura e credo si debba intervenire. D’altra parte credo fermamente che siamo su questa terra con lo scopo di valorizzare e curare – anche da un punto di vista spirituale – ciò che è più essenziale: i rapporti umani. Ognuno può fare la sua parte, nel suo piccolo e coi suoi tempi. A me, come agli altri, il compito di trovare quelli che mi sono propri».