‘Ho fatto la mia rivoluzione, sottile, sussurrata, ma pesante’. Simbolo coerenza, uomo di moda ma anche di sport, è morto oggi a Milano a 91 anni
La camera ardente per l’ultimo saluto sarà allestita da sabato 6 fino a domenica 7 settembre, dalle 9 alle 18 a Milano in via Bergognone 59, nel suo Armani/Teatro. Per espressa volontà dello stilista, i funerali si svolgeranno in forma privata. Giorgio Armani è morto ieri a Milano all’età di 91 anni, compiuti lo scorso 11 luglio. Dal 1975, anno dell’inizio della sua carriera, il suo pensiero si era fatto stile inconfondibile, fino a procurargli quel titolo di re, Re Giorgio, che ufficializzava una certa nobiltà del made in Italy e il suo essere a capo di un impero commerciale indipendente. Il rigore delle linee ma anche quello umano ne hanno segnato la storia in mezzo secolo di moda dalle copertine sul Time al successo a Hollywood, fino all’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana conferitagli dal presidente italiano Sergio Mattarella, suggello di un percorso umano e professionale senza contraddizioni. Nella sua Piacenza, dove era nato nel 1934, in occasione della laurea honoris causa conferitagli dalla Cattolica, Armani aveva ricordato anche uno dei momenti più duri della sua vita, la morte del socio e compagno Sergio Galeotti, mancato dieci anni dopo avere fondato con lui la Giorgio Armani.
Giunto dal più modesto comune lombardo al capoluogo non senza difficoltà (il celebre maggiolino Volkswagen venduto per lanciare l’attività, la paura di non essere all’altezza), col tempo aveva trovato il coraggio per diventare qualcuno: “Ho fatto la mia rivoluzione, sottile e sussurrata, ma pesante, scardinando delle regole dell’abbigliamento che c’erano da trenta-quarant’anni, come proporre un abito da sera con il tacco basso, togliere rigidità alla giacca, immaginare che una donna potesse essere vestita come un uomo”, parole di un rivoluzionario che ha lavorato sino alla fine. “Il Signor Armani, come è sempre stato chiamato con rispetto e ammirazione da dipendenti e collaboratori – si legge nel comunicato del Gruppo – ha lavorato fino agli ultimi giorni, dedicandosi all’azienda, alle collezioni, ai diversi e sempre nuovi progetti in essere e in divenire”. E l’azienda ricorda la di lui “visione che dalla moda si è estesa a ogni aspetto del vivere, anticipando i tempi con straordinaria lucidità e concretezza”. Nel suo spirito, dipendenti e familiari che hanno lavorato al suo fianco si impegnano “a proteggere ciò che ha costruito e a portare avanti la sua azienda nella sua memoria, con rispetto, responsabilità e amore”.
L’ultimo sogno realizzato dallo stilista è stato quello di acquistare – nei giorni scorsi, per ridarle vita – la Capannina di Forte dei Marmi dove negli anni Sessanta conobbe l’amico e poi socio Galeotti.
‘L’oro dell’eleganza’
Il blu della nazionale di calcio, il tricolore sulle divise olimpiche. E il basket. Quella di Giorgio Armani per lo sport era amore, in particolare quello per la pallacanestro, da tifoso prima, sponsor poi e infine proprietario dell’Olimpia Milano. L’Italia del calcio lo ricorderà questa sera a Bergamo prima della partita con l’Estonia e quella del basket in campo lo ha fatto ieri agli Europei con il lutto al braccio. “È un genio, il Leonardo da Vinci italiano dei tempi moderni”, disse di lui Dan Peterson, il coach americano richiamato dallo stilista alla guida dell’Olimpia nel 2011, un’operazione sentimentale più che commerciale. “Mi costa tantissimi soldi, ma ne sono orgoglioso”, ammise lo stilista. Solo diversi anni dopo, Peterson raccontò che nel loro primo incontro Armani si era fermato prima di stringergli la mano, notando il polsino che sporgeva troppo dalla manica della giacca. ”Il giorno dopo, mi riportarono in sartoria...”. Molti sono stati i triondi dell’Olimpia sotto la presidenza di Armani, a cominciare dai sei scudetti che il patron-stilista festeggiava andando in campo con i suoi giocatori.
Lo sport, aveva raccontato Armani, “ha ancora la capacità di emozionare”, e per questo lo aveva reso “parte del mio lavoro”, con una linea dedicata EA7, dove il numero è un riferimento all’amico Andry Shevchenko, col quale si passò la fiaccola olimpica di Torino 2006. “Credo nel potere positivo dell’atto agonistico: l’uso intelligente della disciplina e l’abitudine alla sfida leale danno vita a una miscela che dà energia agli atleti e agli spettatori”, aveva detto. La conseguenza naturale sono state le numerose partnership avviate, a cominciare da quella con il Team Italia alle Olimpiadi, cominciata nel 2012 e ancora in piedi fino a Milano-Cortina, sponsorizzazioni mai solo frutto di una visione commerciale. Vestono Armani la nazionale italiana di calcio, maschile e femminile, e quella di sci, il Napoli dello scudetto 2023 e quello di quest’anno, i calciatori della Juventus. Tanti i campioni-testimonial di un’idea di eleganza: Paola Egonu, Charles Leclerc, Lorenzo Sonego, Sofia Goggia, Simone Giannelli, Bebe Vio e tanti altri, in Italia e nel mondo. Con molti il rapporto era diretto: come nel Natale del 2022, quando la campionessa dello sci Sofia Goggia si infortunò a una mano in gara e raccontò via social di essere stata invitata dallo stilista nella sua casa di St.Moritz.
L’ultima intervista
Giusto una settimana fa, al Financial Times, Giorgio Armani aveva ripercorso la sua vita: “La mia più grande debolezza è che ho il controllo su tutto”, aveva sottolineato, intervistato mentre era in convalescenza nella sua casa di Milano, dopo una malattia che lo aveva costretto a saltare le ultime tre sfilate che aveva organizzato a giugno e luglio. Sperava di essere presente alle celebrazioni per il 50esimo anniversario dalla nascita della maison previste durante la settimana della moda di Milano a fine settembre, dove avrebbe dovuto inaugurare una mostra alla Pinacoteca di Brera, la prima dedicata alla moda nel museo. “Sebbene la mia mentalità sia ben lontana dalla volatilità occasionalmente frenetica della moda, non mi piace particolarmente l’idea di essere etichettato come anti-moda – aveva detto ancora –. Piuttosto, la mia è una posizione in cui lo stile prevale sulle tendenze fugaci che cambiano senza motivo. Se ciò che ho creato 50 anni fa è ancora apprezzato da un pubblico che all’epoca non era nemmeno nato, questa è la ricompensa più grande”.
Non era sicuro che “stacanovista” fosse la parola corretta per definire il suo approccio alla professione, ma “il duro lavoro è certamente essenziale per il successo”, aveva concluso, affidando all’intervistatore il suo unico rimpianto: “Ho trascorso troppe ore a lavorare e non abbastanza tempo con amici e familiari”.