laR+ l’intervista

Estremismi, tra clima e politica

La climatologa Sonia I. Seneviratne, ospite domani di Emergenza Terra, spiega la scienza degli eventi meteorologici estremi. E cosa possiamo fare

Eventi estremi come l’alluvione in Andalusia sono sempre più frequenti.
(keystone)
23 settembre 2025
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Un grado e mezzo in più può sembrare poco. Ma dietro quegli 1,5°C – indicati come obiettivo dell’Accordo di Parigi del 2015 – ci sono la fusione dei ghiacciai, l’erosione delle coste, desertificazione. E ogni decimo di grado conta, così come conta ogni anno di ritardo nella riduzione delle emissioni: di questo, e degli eventi estremi di cui è una delle massime esperte al mondo, parlerà domani alle 18.30 al Campus Supsi di Mendrisio Sonia I. Seneviratne, professoressa al Politecnico di Zurigo e autrice di diversi rapporti dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico.

Seneviratne sarà ospite del ciclo di incontri Emergenza Terra, organizzato dal Dipartimento ambiente costruzioni e design della Supsi.

Professoressa Seneviratne, la sua conferenza è stata preceduta da forti piogge con allagamenti che hanno colpito il Ticino e, in misura maggiore, la Lombardia. Quando possiamo parlare di ‘eventi estremi’ e quando di normale maltempo?

La definizione originaria di evento estremo è statistica: è un evento che accade molto raramente. Per la temperatura può essere un evento molto caldo o molto freddo; per il ciclo dell’acqua può essere un evento molto secco o molto umido. Se lo chiamiamo “estremo” significa che è estremamente raro o che lo sarebbe in un clima senza influenza umana. Con il cambiamento climatico, alcuni eventi che prima avremmo considerato improbabili se non “impossibili” accadono molto più spesso: nel clima attuale non sono più eventi che si verificano, ad esempio, una volta ogni mille anni ma ogni dieci o cinque.

Gli eventi estremi ci interessano perché hanno un forte impatto: temperature molto elevate incidono sulla salute, con persone che possono morire o necessitare di ricovero; piogge intense possono causare alluvioni; una siccità prolungata ha un impatto sull’agricoltura e così via.

La statistica cattura le tendenze generali. Possiamo associare un singolo evento al riscaldamento globale o dobbiamo accontentarci di una percentuale?

Possiamo calcolare la probabilità di un evento nel clima attuale – quindi di riscaldamento globale di 1,3°C – e confrontarla con la probabilità che avrebbe avuto senza cambiamento climatico di origine umana. In alcuni casi possiamo anche dire che un evento estremo avrebbe avuto probabilità quasi zero, nel clima del passato, e quindi concludere che essendo “virtualmente impossibile” senza il cambiamento climatico di origine umana, è “virtualmente certo” che la causa riguarda le emissioni umane. Tuttavia in pochi casi un evento è così estremo da essere completamente fuori dal clima del passato: nella maggior parte degli studi di attribuzione quello che possiamo fare è quantificare il cambiamento di probabilità e dire, ad esempio, che un evento estremo è passato da improbabile a piuttosto verosimile. Possiamo anche valutare il cambiamento medio nell’intensità. Pensiamo alle piogge: i nubifragi ci sono sempre stati, ma nel clima attuale ci aspettiamo che siano oltre che più frequenti anche più intensi. L’evento è “simile” perché si tratta di pioggia intensa, ma l’intensità totale – e di conseguenza l’impatto sulle nostre vite e il territorio – è maggiore.

Non è frustrante essere limitati alle probabilità, non avere un messaggio più chiaro da passare alla politica e alla popolazione?

Questo è quello che la scienza ci dice e va bene così: siamo comunque in grado di affermare che molto probabilmente un certo evento è stato indotto dal cambiamento climatico di origine umana e per eventi molto estremi possiamo anche affermarlo con relativa certezza.

Accade una cosa simile anche in altri ambiti: nella sanità, ad esempio, sappiamo che fumare aumenta di molto il rischio di cancro ai polmoni ma non possiamo dire con certezza che, quando un fumatore si ammala, la causa è il fumo e non qualcos’altro. Ma a livello statistico, per chi fuma il rischio è molto più alto.

L’esempio del fumo è interessante perché, lo vediamo con le varie campagne, è difficile convincere le persone a smettere di fumare.

Sì, è difficile: molte persone conoscono la verità e continuano a fumare, pur sapendo che aumenta il rischio di malattia. Alcuni magari saranno fortunati. Ma sappiamo che i rischi sono molto maggiori se si fuma. Ognuno poi decide, ma il dato scientifico è chiaro.

Come ha detto prima, il clima attuale è già più caldo di quello preindustriale: non parliamo di un qualcosa che accadrà in un futuro non meglio precisato, ma di un problema che è già qui e, mi corregga se sbaglio, anche più grave di quanto alcune previsioni avevano indicato.

La risposta è complessa ma provo a rispondere per punti. Il primo è punto è che sì, gli impatti del cambiamento climatico antropico avvengono adesso. Oggi abbiamo molti più eventi estremi di venti o quaranta anni fa e da circa cinque-sei anni iniziamo ad avere eventi così estremi che si spiegano solo con il cambiamento climatico di origine umana.

Sulla velocità del riscaldamento globale: intorno al 2010 il riscaldamento era leggermente inferiore a quanto previsto dai modelli; ora è leggermente superiore. Siamo comunque entro l’intervallo delle proiezioni. Non direi che siamo fuori dalle previsioni, che indicano sempre un intervallo, ma siamo verso il limite superiore, nella parte “peggiore” della previsione. Il che è purtroppo coerente con le emissioni di gas a effetto serra che non sono state ridotte. Se avessimo diminuito le emissioni, avremmo meno riscaldamento. Quindi è coerente, ma il livello è elevato perché non c’è stata riduzione delle emissioni.

Arriviamo così all’elefante nella stanza: possiamo fare qualcosa, per contenere il riscaldamento globale?

È troppo tardi per evitare alcuni impatti: quelli già avvenuti e i cambiamenti già impressi al sistema non si cancellano. La CO₂ può restare in atmosfera per oltre un secolo. Creiamo un problema che non si può “recuperare” rapidamente: l’effetto è di lungo periodo e ci vorranno secoli o millenni per tornare al clima del passato. Nel migliore dei casi.

Nel peggiore, se continuiamo a emettere, peggiorerà. La posta in gioco ora è: possiamo limitare ulteriori danni? Possiamo evitare che la situazione peggiori? Sì, possiamo, riducendo le emissioni possiamo stabilizzare il riscaldamento più o meno al livello attuale. Gli impatti non spariranno, ma potremo adattarci perché la situazione sarà stabile, invece di peggiorare.

Qual è la priorità, ridurre le emissioni o adattarci a un clima più caldo e con eventi estremi più intensi e frequenti?

La priorità è ridurre le emissioni di CO₂: smettere di usare combustibili fossili o ridurne il consumo il più possibile. Sappiamo già come: possiamo produrre elettricità con fonti rinnovabili, usare auto elettriche al posto di quelle a benzina, riscaldare case e uffici con le pompe di calore.

Bisogna anche adattarsi, perché come detto il clima è già cambiato. Avere dei sistemi di allerta, per esempio, aiutano. In città possiamo piantare alberi che abbassano la temperatura locale di 1 o 2 °C – ma con le ondate di calore parliamo spesso di aumenti di 4 °C o più. Per le precipitazioni estreme, non ci si può adattare ovunque: significherebbe riprogettare infrastrutture pensate per il clima del XX secolo con costi molto elevati. In definitiva, è più economico investire per fermare e stabilizzare la situazione.

Quella tra adattamento e mitigazione è insomma una falsa alternativa.

Sì, bisogna fare entrambe ma direi che prima di tutto bisogna ridurre le emissioni per stabilizzare la situazione

Di quanto dobbiamo ridurle? C’è un certo scetticismo sulla fattibilità di una transizione ecologica che imporrebbe sacrifici difficilmente accettabili, come rinunciare ai viaggi o non mangiare più carne.

L’importante è ridurre le emissioni. Idealmente, bisogna arrivare a emissioni nette zero: tutti gli scenari compatibili con la stabilizzazione intorno a 1,5 °C in più rispetto all’era preindustriale prevedono un dimezzamento delle emissioni entro il 2030, cioè tra pochi anni. Non serve arrivare subito a zero: iniziare a ridurre significa già ridurre le conseguenze, perché le emissioni si accumulano.

E non tutti i cambiamenti sono uguali: passare da un’auto a benzina a una elettrica e sostituire il riscaldamento a gasolio o a gas riduce molto le emissioni di CO2. Le emissioni legate all’allevamento riguardano soprattutto il metano, che ha vita atmosferica più breve della CO₂, ma conta. E non è comunque necessario rinunciare completamente alla carne: basta ridurne il consumo, mangiarla due volte a settimana, preferendo le carni bianche a quelle rosse.

La crisi climatica è anche un problema di giustizia globale. Il tema è politico e sociale, ma la scienza dell’attribuzione può aiutarci a capire il contributo dei singoli Paesi?

Oggi possiamo quantificare il contributo dei singoli emettitori – non i più piccoli, ma i grandi Paesi sì e anche le grandi aziende che vendono combustibili fossili. Possiamo ad esempio stimare il contributo delle 180 “carbon majors” – le aziende e i Paesi che hanno venduto più gas, petrolio o carbone – alla probabilità delle ondate di calore.

Per via dell’accumulo di CO2 nell’atmosfera, il contributo maggiore arriva dagli inquinatori storici; ma Paesi in crescita come la Cina aumentano il proprio contributo ogni anno: siamo in grado di distinguere i singoli contributi e comprenderne il peso relativo.

Abbiamo quindi una sorta di “mappa delle responsabilità”.

Sì. Possiamo suddividere i dati per Paese – come fa l’Unfccc, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – oppure per aziende che vendono combustibili fossili. Si può anche guardare alle differenze interne: nei Paesi ricchi ci sono grandi differenze tra persone molto ricche e persone povere che hanno stili di vita meno energivori.

Io però sono una scienziata del clima: come usare queste informazioni – all’interno di negoziati o in tribunale – è una questione di giustizia, non di scienza. Noi possiamo quantificare i contributi relativi, ma la distribuzione della responsabilità in un contesto legale o politico resta complessa.

Ma come valuta l’impegno politico nella lotta al cambiamento climatico? Vediamo che negli Stati Uniti non è più una priorità. Non voglio andare oltre le sue competenze, ma dopo tutto il ruolo dell’Ipcc è quello di mettere in contatto scienza e politica.

Diciamo che in alcuni Paesi i governi hanno spinto di più, in altri di meno, e anche all’interno dello stesso Paese le cose possono cambiare con i vari governi. Quello che accade negli Stati Uniti al momento è preoccupante per me, come ricercatrice: la scienza sembra ignorata in molti contesti. Si scrivono rapporti che non si basano sulla scienza o cercano di negarla. Molti scienziati sono stati licenziati. È preoccupante.

Cercare di nascondere la verità o la scienza non cambia i fatti: quelli restano. I sondaggi mostrano che la maggioranza delle persone, nella maggior parte dei Paesi, vuole interventi per il clima e sarebbe disposta a pagare circa l’1% del proprio salario per ridurre le emissioni. I cittadini vogliono fare qualcosa; spesso i governi non fanno quanto vorrebbero le persone.

Come Ipcc noi forniamo una sintesi delle conoscenze scientifiche e in collaborazione con i vari Paesi, perché i loro rappresentanti partecipano all’approvazione dei rapporti. Finora il lavoro è stato costruttivo e utile dal punto di vista scientifico. Ma l’attuazione spetta alla politica.