C’era da aspettarselo. E verosimilmente chi si occupa di scuola ogni giorno lo aveva intuito: il caso degli aspiranti insegnanti di italiano, abilitati dal Dipartimento formazione e apprendimento Supsi (Dfa), ma privati del concorso cantonale di assunzione, era solo l’inizio. A un non addetto ai lavori potrebbe apparire singolare l’attenzione, se non il clamore, suscitata dall’errore di calcolo relativo al fabbisogno di insegnanti nei licei cantonali, per quanto grave possa essere (13 nuovi insegnanti di italiano abilitati, ma senza concrete prospettive occupazionali).
Ora, per provare a comprendere ciò che sta accadendo, si prenda una palla di materiale morbido, malleabile. Ecco, un pallone gonfiato, nel quale per oltre un decennio siano stati accolti, compressi, insaccati gas di natura più o meno venefica: questioni ideali, metodologiche, politiche, personali. Al primo foro, causato dalle intemperie o dalle imperizie dei tempi, forse dalle incurie di chi ne avrebbe la responsabilità, tutto fuoriuscirà in ordine sparso e incontrollabile, nonostante i tentativi di tappare la falla. Ora, il dibattito sulla stima del fabbisogno di insegnanti si è ben presto allargato alla natura e alla qualità della formazione post-universitaria che abilita all’insegnamento, alla dignità della figura del docente e dell’istituzione scuola, alle modalità di selezione dei quadri dirigenti, all’adeguatezza della conduzione della stessa Divisione della scuola. Ce n’è abbastanza per comprendere che sotto la cenere, o dentro il pallone, da tempo covava qualcosa.
Fabio Pusterla, dall’alto della sua lunga esperienza di insegnante, oltre che di formatore di giovani insegnanti, è stato fra i primi a lanciare un sasso nella palude, con cui allargare il perimetro della riflessione in atto. Come dire, forse l’occasione è propizia per interrogarci finalmente sulla natura stessa di questa formazione post-universitaria, sulle sue modalità e la sua effettiva qualità, troppo spesso messa in discussione da chi ha potuto conoscere le aule del Dfa. Una formazione, è bene ricordarlo, a cui si approda dopo anni di esperienze di studio e in molti casi professionali, in una stagione della vita in cui le aspettative verso qualsivoglia ulteriore formazione diventano piuttosto alte. Questo per dire che un aspirante insegnante liceale, spesso più che trentenne, non pretende di ritrovarsi al cospetto della reincarnazione di Umberto Eco o di Galileo, ma almeno di potersi nutrire dell’esperienza di un collega esperto che conosca la realtà didattica e pedagogica della scuola a cui spera di poter accedere. Va da sé che spesso così non è stato.
I cerchi concentrici del sasso di Pusterla ci conducono così a una delle interrogazioni parlamentari presentate nei giorni scorsi e alla lettera degli insegnanti che stanno seguendo il percorso di formazione dei 13 abilitandi in italiano. Osservando l’impostazione piuttosto rigida del sistema di formazione ticinese, le loro parole acquistano un peso non indifferente. Infatti si parla di un “sistema ibrido, non libero”, “non realmente professionalizzante” e in definitiva “indifendibile”, nel quale prevalgono gli interessi della Supsi piuttosto che quelli della scuola. Un sistema, in altre parole, che da un lato non valorizza la vocazione degli studenti più giovani quando la loro formazione accademica è ancora in corso, dall’altro tende ad allontanare i profili più solidi, che hanno maturato esperienze di vita e di lavoro anche al di fuori delle aule universitarie.
Le acque della palude si agitano ulteriormente se si considera che questo accade mentre il Consiglio di Stato (forse in assenza di alternative che avrebbero potuto essere preferibili) ribadisce le recenti nomine alla testa del Servizio dell’insegnamento medio superiore, nonostante il Tribunale amministrativo le avesse annullate, rinunciando (per ora) a un nuovo concorso e scegliendo in definitiva la via di uno scontro inedito e preoccupante. Tutto ciò nel momento in cui è in corso, in ritardo, una complessa riforma dell’Ordinanza federale sulla maturità, la cui attuazione richiederebbe lucidità, lungimiranza e un’autentica conoscenza del composito, eterogeneo, ingolfato sistema scuola. Soprattutto, da qualsiasi prospettiva la si osservi, autorevolezza e senso di responsabilità, nell’interesse dei ragazzi che questa nuova scuola, ancora senza un’identità, la vivranno nei prossimi decenni, possibilmente in modo più positivo e nutriente di quanto non accada oggi.
Si arriva così all’interrogazione del Plr che, in modo diretto, mette in discussione la conduzione della Divisione della scuola (e indirettamente dello stesso Dipartimento dell’educazione). Ma qui, forse, i miasmi del pallone sgonfiato si confondono ulteriormente e il confine fra questioni di merito e questioni politiche, con la p minuscola, si fa incerto. E inizia un altro discorso.