Una vittima sacrificale è qualcuno (una persona, un gruppo, un popolo) che viene sacrificato per un interesse ritenuto più grande. I palestinesi sono stati, e sono tuttora delle vittime sacrificali. Lo sono stati e lo sono per garantire, col loro sacrificio imposto, vita, influenza e potere allo Stato di Israele. Per compensare col loro sacrificio il senso di colpa dell’Europa nei confronti di quell’abominio storico, del quale i palestinesi non hanno la minima colpa, che fu l’Olocausto perpetrato dalla Germania nazista.
L’atto ufficiale che diede avvio agli avvenimenti che hanno coinvolto tragicamente il popolo palestinese è datato 1916 (ben prima dell’Olocausto). Quell’atto fu l’accordo (segreto!) di quell’anno che porta il nome dei due fautori, un diplomatico britannico e uno francese, e che venne sostenuto dalla Russia zarista: l’accordo Sykes-Picot. In base a questo accordo Francia e Gran Bretagna si spartirono il Medio Oriente, tracciando confini arbitrari, senza tenere conto di etnie, tribù, lingue e religioni. Quell’accordo tra l’imperialismo francese e quello inglese venne denunciato dall’Urss dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 (la Russia zarista era stata coinvolta), creando grande scandalo e una profonda sfiducia nel mondo arabo verso l’Occidente. Infatti, quell’accordo, non per caso segreto, tradiva le promesse fatte quando Francia e Inghilterra avevano bisogno dell’aiuto arabo per combattere l’impero Ottomano, poi sconfitto con gli altri imperi europei, nel corso della Prima guerra mondiale. Risultato: una profonda sfiducia araba nei confronti dell’Occidente, un senso di tradimento storico che permane ancora oggi e al quale si può far risalire, in parte, la responsabilità delle rivolte, delle guerre e degli estremismi religiosi che hanno caratterizzato il Medio Oriente negli ultimi cinquanta anni.
Quell’accordo assegnava la Palestina a una amministrazione internazionale sapientemente dirottata sotto il controllo della Gran Bretagna. Successivamente la Gran Bretagna otteneva direttamente il Mandato sulla Palestina ufficializzato dalla Società delle Nazioni nel 1922. Ora la Gran Bretagna aveva la possibilità di tradurre in atti concreti la “dichiarazione di Balfour” del 1917 (un anno dopo l’accordo Sykes-Picot!) con la quale il governo britannico si era impegnato a favorire la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”. Questo avvenne, evidentemente, senza consultare la popolazione araba che pur rappresentava la grande maggioranza della popolazione della stessa Palestina.
Nel 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò un piano di ripartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. Gli ebrei accettarono, gli arabi rifiutarono sostenendo che era ingiusto assegnare oltre la metà del territorio a una minoranza (gli ebrei erano circa un terzo della popolazione della Palestina).
Nel 1948, dopo il ritiro britannico, David Ben Gurion proclamò unilateralmente la nascita dello Stato di Israele. Seguì la guerra del 1948-49 nella quale circa 700’000 palestinesi fuggirono o furono espulsi creando il problema dei rifugiati palestinesi mai risolto malgrado la risoluzione 194 dell’Onu che riconosceva agli esuli il diritto al ritorno, la crisi di Suez e la seconda guerra arabo-israeliana (1956), la guerra dei sei giorni (1967) vinta in modo schiacciante da Israele, la guerra del Kippur (1973) che portò agli accordi di Camp David (1978) con la pace tra Egitto e Israele, l’invasione del Libano nel 1982, due rivolte palestinesi (Intifada) e cinque guerre di Gaza fino al genocidio in corso da parte israeliana, motivato, ma non giustificabile in questi termini, dall’episodio di disumana ferocia del 7 ottobre. Episodio che, inspiegabilmente, non ha potuto essere previsto dagli efficientissimi servizi segreti israeliani.
Prima di arrivare alla situazione attuale ci furono degli avvenimenti decisivi che cambiarono radicalmente la politica di Israele: da aperta e disponibile a chiusa e aggressiva. Questi fatti furono il trattato di Oslo (1993 e 1995) tra Rabin e Arafat con il riconoscimento reciproco dei due Stati, l’assassinio di Rabin da parte di un estremista della Destra religiosa, la vittoria (seppur risicata) di Netanyahu nelle elezioni del 1996 che fecero seguito all’assassinio di Rabin (l’assassino raggiunse il suo scopo), l’abbandono sostanziale degli accordi di Oslo (Netanyahu li aveva sempre combattuti) e l’avvio di una politica aggressiva da parte di Israele. Politica aggressiva imposta anche dalla necessità da parte di Netanyahu di creare il clima necessario per restare al potere, evitando la condanna per corruzione in un processo in corso. Israele si infilò così in una politica aggressiva di stampo dapprima coloniale in Cisgiordania, poi di tendenza imperialista, con l’appoggio Usa, per il controllo di tutto il Medio Oriente.
Dall’imperialismo franco-britannico dell’accordo Sykes-Picot all’imperialismo israeliano con il sostegno degli Stati Uniti, la Storia, non solo in Medio Oriente, continua a seguire un percorso sempre più pericoloso.