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La sfida del welfare ticinese

(Ti-Press)

Negli ultimi decenni in Svizzera, come in gran parte d’Europa, è emerso un divario sempre più evidente tra i bisogni della società e la capacità dell’economia di finanziare quei bisogni. È un tema che in Ticino si fa particolarmente urgente: con una popolazione più anziana della media nazionale, salari più bassi, e una crescita economica che arranca attorno all’1-1,5% annuo, il Cantone si trova di fronte a una stretta fiscale che non potrà essere risolta con l’attuale sistema tributario, basato principalmente sull’imposizione del reddito da lavoro. La realtà è semplice quanto evidente: i bisogni crescono più velocemente del Pil. D’altra parte, però, il rendimento del capitale supera la crescita del Pil, così come è stato ben evidenziato nei lavori dell’economista francese Thomas Piketty. Se, ad esempio, l’economia cresce del 2% ma la spesa pubblica sanitaria e sociale aumenta del 4%, ecco che i conti ne risentono e bisogna scegliere se indebitarsi, tagliare i servizi, o trovare nuove risorse.

Negli anni 60-80 il modello sociale si è potuto espandere perché la crescita era sostenuta: i nuovi bisogni (socialità, sanità universale, istruzione) erano finanziabili da un’economia che produceva sufficiente ricchezza da coprirne i costi. Questo equilibrio si è rotto dagli anni 90 in poi. Oggi la spesa sociale in Svizzera ha superato il 24% del Pil (era al 15% nel 1990). L’invecchiamento della popolazione, le tecnologie mediche più costose e le problematiche sociali di una collettività meno coesa e che tende a escludere sempre più persone hanno determinato un forte aumento dei costi, mentre la base imponibile – principalmente il reddito da lavoro – si è ristretta o si è precarizzata.

Più over-65 significa più spesa sociosanitaria. Ma significa anche meno lavoratori attivi. Meno lavoratori vuol dire meno gettito dalle imposte sul reddito e meno contributi sociali (Avs e secondo pilastro). Si crea un circolo vizioso: i bisogni crescono proprio mentre la base imponibile si restringe. Nel Ticino questo effetto è amplificato. La popolazione anziana è sopra la media nazionale, mentre la struttura salariale è fragile, con salari significativamente più bassi rispetto al resto della Svizzera. Ma non è solo una questione demografica. Si aggiungono altri bisogni in crescita, come la formazione terziaria, che si è ampliata senza ridurre la spesa per la scuola dell’obbligo. E neppure si possono trascurare le esigenze “tradizionali” come l’adeguamento e la manutenzione delle infrastrutture. Così come non si sono ancora calcolati i costi di prevenzione e dei danni causati dal surriscaldamento climatico, di cui solo ora prendiamo coscienza.

Il problema è che il nostro sistema fiscale non si è evoluto di pari passo ai bisogni, al cambiamento della società e alla concentrazione del capitale, con disuguaglianze che non raggiungevano livelli così alti da prima della Rivoluzione francese. In Ticino – ma anche in Svizzera – si è puntato per decenni su tagli fiscali mirati ad attrarre imprese e ricchi contribuenti. Il risultato è un sistema sempre meno progressivo, di cui invece avremmo urgente bisogno. La competizione fiscale tra Cantoni ha spinto al ribasso le aliquote sui grandi redditi e sui grandi capitali senza interrogarsi sulla sostenibilità a lungo termine. In questo contesto le disuguaglianze patrimoniali sono aumentate. Secondo l’Ufficio federale di statistica, il Ticino è il cantone che ha visto il maggiore incremento dell’indice di Gini (misura statistica della diseguaglianza) tra il 2005 e il 2018. Dati recenti mostrano che tra il 2003 e il 2021 la quota di ricchezza detenuta dai super-ricchi (chi ha oltre 10 milioni di patrimonio) è triplicata. La ricchezza complessiva è cresciuta, ma la sua distribuzione si è concentrata sempre più in alto. Nel 2021 il top 0.36% dei contribuenti ticinesi deteneva oltre il 30% della ricchezza. Nel 2003 la stessa fascia deteneva solo il 10%. Nel frattempo il ceto medio si è ristretto, e la quota di chi ha zero o pochissimo patrimonio è percentualmente aumentata.

In questo scenario è illusorio pensare di finanziare i crescenti bisogni pubblici tassando solo il lavoro. Semplicemente non basterà più. Con una popolazione che invecchia, il lavoro non può sostenere da solo il welfare. Serve un ripensamento radicale. Una strada percorribile è un’imposizione più equa del capitale. Chi ha più patrimonio deve contribuire di più. Non per punire i ricchi, ma per garantire la sostenibilità e la stabilità del sistema sociale che tiene insieme la comunità. In questo senso lo Stato ha il ruolo di stabilizzatore delle società. La scelta non è tra tasse più alte o più basse. È tra due modelli di società: uno che riesce a garantire servizi di qualità a tutti, uno che li vede lentamente sgretolarsi, lasciando i più vulnerabili, ma anche il ceto medio, senza protezione.

Il Ticino deve interrogarsi sul proprio futuro. Vuole continuare a ridurre le imposte indiscriminatamente, accettando una crescita delle disuguaglianze e un indebolimento dei servizi pubblici? O vuole costruire un nuovo patto fiscale e sociale, che metta al centro la solidarietà intergenerazionale e l’equità? Il dibattito non è contabile, ma profondamente politico e morale e non può più essere rinviato.