“Si dice che una volta toccato il fondo non puoi che risalire. A me capita di cominciare a scavare”. È una citazione del geniale cantautore Freak Antoni ed è quel che potrebbe confidare, stravolgendola solo un po’, il coordinatore della Lega dopo l’approvazione in sede governativa del cosiddetto “arrocchino” che da oltre un mese tiene banco nel triste paesaggio politico cantonale e che è giunto a soluzione (di compromesso) in Val Bedretto. Con Picca e pala si sta scavando la fossa all’attuale legislatura, visto che ormai è assodato che ci si ritrova già in campagna elettorale, ampiamente anticipata. Il Picca ce lo mette la Lega, la pala gli altri partiti di governo che all’unanimità hanno approvato la manovra. Per il bene del paese, naturalmente, così bersagliato e angustiato, stando alla narrazione di via Monte Boglia, da tempeste e uragani color marrone della solita stampa mainstream.
La lettura dei fatti che ci arriva dal domenicale “vicino al movimento” mostra esplicitamente come si riesca a cantar vittoria e menar vanto delle proprie imprese gastriche e intestine, facendo leva sulle “isteriche” reazioni da parte di esponenti di spicco degli altri partiti ma anche sul dato oggettivo e opportunamente sbandierato dell’unanimità raggiunta in sede governativa. Ed è proprio su questo evidente “scollamento” fra dichiarazioni di principio, richiami al rispetto delle istituzioni e decisioni politiche concrete che viene da porsi qualche serio interrogativo. Questioni di fondo, già sollevate con estrema chiarezza su queste colonne negli scorsi giorni da Daniel Ritzer e da Andrea Ghiringhelli. Il cittadino elettore si trova oggi più che mai confrontato con una “classe dirigente” che fa del proprio status l’obiettivo primario dell’attività politica. Impugnando voti e preferenze l’attuale presidente del governo passa il tempo a ricordare di essere quello che piace di più; ergo, è dunque autorizzato a dire e fare quel che gli pare, perseguendo una logica “illogica”, quella che fa ritenere a chi è stato votato a maggioranza di avere l’unanimità (e la conseguente impunità) di disporre, insomma, di un potere pressoché assoluto. Poco importa che, di fatto, non si sia stato eletto dal 70 per cento della popolazione. Se si inanellano decisioni discutibili, se non addirittura inopportune, palesemente contestate anche in sede legale, ecco che si può sempre cominciare con il negare; in un secondo momento, buttasse male, chiedere scusa, addirittura autosospendersi per poi riprendere in mano dossier e timone a piacimento, in barba a ogni principio di rispetto del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Se c’è da fornire qualche “fastidiosa” spiegazione circa il proprio operato, si può sempre procedere, per esempio, col mandare a giudizio propri sottoposti, annerire documenti, dimenticarsi dell’esito di “inchieste interne” su strani valzer di poltrone in Consigli d’amministrazione pubblici e parapubblici o su nomine teleguidate in magistratura. Ma soprattutto, si può sempre contare sulla comprensione benevola degli altri membri di governo, che hanno anche loro le proprie gatte da pelare, i propri “casi aperti” su cui è meglio non dare conto perché “è pendente un procedimento giudiziario” (e il caso Caruso? E quello della nomina di due responsabili scolastici inesperti?).
Nel paese dei casi pendenti lo strampalato “arrocchino” potrebbe pure essere il risultato di una concertazione fra cinque notabili che poco si parlano, ma molto sanno l’uno dell’altro. Quindi, perché sollevare inutili controversie, in un momento tanto difficile per il (governo del) Cantone? E soprattutto: perché dare spiegazioni all’opinione pubblica? Meglio tacere, prima che qualcuno “apra il libro”. A strepitare ci pensano i referenti di partito in Gran Consiglio, tutti a stigmatizzare, chi in un modo chi in un altro, le mosse leghiste in governo, invocando il “pasticcio” o il “pateracchio”. Poi arriva l’unanimità sull’“arrocchino”, come non ci si parlasse neanche dentro ai singoli partiti, e improvvisamente quelli che stanno in governo si ritrovano a rimestare valori istituzionali e principio della collegialità come garanzia di continuità nel lavoro sui “progetti che contano”. Altro che giravolta alla Lambiel. Sentire alla Rsi il copresidente Ps Fabrizio Sirica dirsi “contento” per l’unanimità raggiunta in Consiglio di Stato lascia francamente basiti, e non trovare un’immediata adesione socialista alla richiesta Mps di una seduta straordinaria in Gran Consiglio per discutere della questione appare come un segnale inquietante di passiva condivisione del malandazzo istituzionale. Fino a quando si continuerà a scavare?