Colpisce e preoccupa la spregiudicatezza con cui, nel ‘dopo Solari’, si sorvola sui simboli (e non solo materiali). Che l'Sos dei critici sortisca effetti
“Una querelle squisitamente locale che infine si sta risolvendo, come da previsioni, in modo indolore”. È la teoria da “parcheggio riservato e tartine al salmone” con cui il ‘Cdt’ si chiama fuori dal dibattito apertosi a Locarno dopo l’improvviso pensionamento della struttura dello schermo di Piazza Grande; icona che dal 1971, grazie al genio (locale) di Livio Vacchini, ha contribuito a generare ciò che è oggi il Locarno Film Festival.
I contorni della vicenda sono ormai noti a tutti e la petizione che ne è l’emblema – “Locarno: don’t touch the screen!” – veleggia rapidamente verso le 9’000 firme (tutte, in effetti, “squisitamente locali”, a partire da quelle di Sergio Castellitto, Domenico Procacci, Marco Tullio Giordana e Kasia Smutniak). Almeno, nel frattempo, il Festival ha promosso una raccolta pubblica di idee (su schermo@locarnofestival.ch) e si è detto disposto a ragionare su “soluzioni concrete e condivise per il futuro della struttura”. Quanto questo possa avvicinarsi a un semplice dietrofront (dal 2026) con tante scuse, lo vedremo.
Dunque: cos’è oggi il Locarno Film Festival? È un oggetto preziosissimo per valore artistico, socioculturale e anche economico. Un vero e proprio miracolo locarnese (e ticinese) su scala nazionale, che come tale sta brillando in questi giorni di benefica rigenerazione intellettuale – non solo per i cinefili – e incredibile trasfigurazione internazionale di un contesto altrimenti provinciale. Questo stacco è tanto profondo da aver portato, non a caso, da una parte al progressivo allargamento della rassegna oltre la sua canonica decina agostana; dall’altra a un crescente impegno istituzionale per definire Locarno quale vero polo dell’audiovisivo (leggi Palacinema quale avamposto del progetto strategico di Campus universitario per il cinema e l’audiovisivo con orizzonte 2030); e da un’altra ancora al meritato e continuativo sostegno di partner pubblici e privati.
Ma c’è un altro elemento che determina il successo e la sopravvivenza stessa del Locarno Film Festival: è il suo legame col territorio. Che è ben diverso dal provincialismo, o dal localismo evocato da chi, per fretta o comodità, intende svilirlo. Territorialtà significa storia, intuizioni (come quelle del Vacchini) e dibattito costante, anche attorno all’architettura, che a Locarno come in nessun altro Festival custodisce la memoria della manifestazione. Dimenticarselo, o deliberatamente ignorarlo, è esattamente la miccia che ha fatto esplodere l’indignazione di Teresa Cavina e Marco Müller, di Mario Botta, di cineasti, attori e migliaia di persone comuni. Purtroppo, unitamente a tante cose straordinarie, nel Festival di oggi osserviamo infatti un disallineamento dal territorio e scarso rispetto per la memoria, a beneficio del franco. Lo abbiamo visto nelle conseguenze su molte persone dei draconiani cambiamenti della struttura organizzativa; poi nella “nonchalance” con cui è stata avviata e condotta la sistematica eliminazione dei simboli – schermo del Vacchini, “diamante” della cabina di proiezione, la Magnolia di Arnaboldi, per cui è già stato intonato il requiem –; simboli fra i quali mettiamo anche Marco Solari, la cui partenza ha creato, da questo punto di vista, quella che sempre più sembra una voragine. Maja Hoffmann, la sua successora, ha riconosciuto l’importanza, per il Festival, di “un ancoraggio territoriale importante”, ma cosa intenda con questo rimane un mistero. Ce lo dirà, speriamo, dopo l’ulteriore anno che ha chiesto “per capire cosa è la città”.