laR+ Ciclismo

Quando il pedale perse la propria innocenza

Il 18 luglio 1995, sulle strade del Tour de France, Fabio Casartelli moriva in un incidente che, con qualche accorgimento, si sarebbe forse potuto evitare

In sintesi:
  • Sono ormai passati trent’anni dalla tragedia che al Tour de France tolse la vita al 25enne comasco Fabio Casartelli, campione olimpico a Barcellona tre anni prima
  • È probabile che, se l’uso del casco già allora fosse stato obbligatorio, la caduta lungo la discesa del Porter-d’Aspet non avrebbe avuto esito letale: a quei tempi, però, la stragrande maggioranza dei ciclisti si rifiutava di indossarlo, perché lo considerava scomodo oltre che di nulla utilità
  • Vergognoso fu l’atteggiamento degli organizzatori che, pur sapendo che Casartelli era morto a inizio tappa, obbligarono le squadre a disputare la frazione spingendo al massimo fino alla fine: inoltre, non vennero annullati nemmeno la premiazione e i successivi festeggiamenti, che si consumarono secondo il protocollo – con tanto di musica e majorette – come se nulla fosse accaduto
18 luglio 2025
|

«Il ricordo più vivo di mio papà, che non ho mai potuto conoscere, è una foto che tengo incorniciata in camera. Io ho due mesi, lui è seduto sul divano, mi tiene in braccio, guarda verso l’obiettivo e pare molto felice. Non l’ho mai voluta riprodurre, duplicare o condividere con nessuno: per me papà è dentro quella cornice». Parole di Marco Casartelli, riportate in un’intervista di qualche tempo fa. «Lance ci è sempre stato vicino, vicino a mia madre quando ne aveva bisogno. Ho delle foto con lui fin da quand’ero bambino: ci veniva a trovare ogni volta che veniva in Italia. Le sue disavventure giudiziarie non mi interessano, per me Armstrong sarà sempre l’uomo che ci ha aiutato quando avevamo bisogno. Col mondo del ciclismo oggi non abbiamo più quasi nessun contatto».

Fra i pochi a interessarsi e a dare una mano, dunque, ci fu paradossalmente l’uomo che – dopo la tragedia che tolse la vita a Fabio Casartelli, morto sulle strade del Tour de France esattamente trent’anni fa – superò dapprima un cancro e poi, dopandosi all’inverosimile e tiranneggiando sul gruppo con metodi mafiosi, dominò per anni il mondo del pedale e divenne ricco come Creso. Che il texano fosse molto legato al comasco, ad ogni modo, si era intuito già in quell’ormai lontana Grande Boucle, quando – tre giorni dopo la maledetta caduta – vinse in maglia Motorola la tappa che si concludeva a Limoges e tagliò il traguardo in lacrime indicando il cielo per dedicare il successo al compagno di squadra scomparso.

Uno sport che si stava autodistruggendo

Quando suo padre morì un mese prima di compiere 25 anni, Marco Casartelli aveva soltanto due mesi, e quindi non può ricordare nulla di quella terribile tappa che univa Saint-Girons a Cauterets, la quindicesima del Tour del ’95, l’ultimo dei cinque consecutivi messi in bacheca da Miguel Indurain. Da coloro che invece seguono le corse da qualche decennio, quel 18 luglio viene spesso evocato come il giorno in cui il ciclismo – in un’epoca in cui aveva scelto di votarsi all’autodistruzione – perse definitivamente la propria innocenza. Molti, forse troppi, sono infatti gli elementi che ci fanno pensare con rabbia, oltre che rammarico, al contesto in cui si consumò il dramma che privò la carovana di uno dei più promettenti atleti della propria generazione, che non a caso – tre anni prima a Barcellona – si era laureato campione olimpico nella prova in linea, giusto prima di passare al professionismo.

Quello del 18 luglio 1995 era davvero un tappone impegnativo, andato in scena dopo la vittoria del Pirata Marco Pantani a Guzet-Neige e dopo il giorno di riposo che ne era seguito. La frazione, lunga 206 km, prevedeva il superamento di ben sei colli da brivido, fra cui i leggendari Aspin, Peyresourde e Tourmalet: aveva insomma tutte le carte in regole per passare alla storia, peccato però che l’abbia fatto nel peggior modo immaginabile.

Dopo 34 km di corsa, scendendo il Portet-d’Aspet verso Boutx a velocità folle – si dice fosse vicina agli 80 km orari – dopo una curva a sinistra il francese Rezze non riuscì a controllare la propria traiettoria, allargò a destra e precipitò in una scarpata, compiendo un volo che gli costò la frattura del femore. La sua manovra inattesa innescò una caduta collettiva che coinvolse i colleghi che lo seguivano più da vicino: il tedesco Baldinger ci rimise il bacino, mentre Perini, Museeuw e Breukink, pur malconci e visibilmente groggy, riuscirono dopo qualche minuto a rimontare in sella e a ripartire. A rimanere a terra fu invece Fabio Casartelli: a impedire che l’italiano finisse a sua volta nel burrone fu un paracarro di pietra squadrato, scelleratamente rivestito di nulla, che fermò non soltanto la sua scivolata, ma purtroppo anche la sua vita, dato che andò a batterci il capo con una violenza che risulterà letale. Erano le 11.45.

Le immagini televisive in mondovisione mostrarono in presa diretta gli esiti dell’incidente, dato che un operatore – a cavallo di una moto – tallonava lo sfortunato gruppetto da molto vicino. Invece di censurare le scene più scabrose come usa oggi (giusto o sbagliato?), la regia si soffermò a lungo sul corpo inerme del giovane originario di Albese con Cassano, località brianzola che sorge a soli 15 km da Chiasso.

Il ragazzo giaceva ancora a contatto della propria bici semidistrutta, le braccia piegate in maniera innaturale, mentre un copioso rivolo di sangue tingeva di rosso l’asfalto rovente di quella strada dei Pirenei.

Condizioni gravissime

Ai soccorritori guidati dal medico della corsa, pur giunti dopo pochissimi minuti, le sue condizioni parvero subito gravissime, e infatti fu immediatamente allertato l’elicottero, a bordo del quale – durante i 15 minuti di volo verso l’ospedale di Tarbes, non lontano da Lourdes – il suo cuore si fermò ben tre volte. Il campione venne riportato alla vita con massaggi cardiaci e ben venti fiale di adrenalina.

Alle 12.15, cioè mezz’ora dopo il tremendo impatto, Casartelli entrò nel nosocomio quando risultava già in coma irreversibile, ma i sanitari – ai quali si aggiunse presto il medico della Motorola, Massimo Testa, comasco pure lui – non vollero arrendersi all’evidenza, e dunque continuarono altre due ore a lottare contro i sempre più frequenti arresti cardiaci. Intanto, giunsero anche i risultati delle radiografie del cranio, che mostravano un numero infinito di fratture gravissime, compresa quella delle prime vertebre cervicali. Anche un ipotetico trasferimento a Bordeaux, dove c’erano strutture più attrezzate, venne dunque ritenuto inutile, e alle 14 Fabio fu dichiarato morto.

‘The show must go on’

La notizia si diffuse velocissima, e nel giro di pochi istanti venne comunicata alla stampa – che immediatamente la rese pubblica nel corso delle dirette televisive e radiofoniche – e ai corridori, che avrebbero coperto le ultime ore di corsa ben coscienti di quanto accaduto al loro collega italiano. Alcuni, comprensibilmente, avrebbero voluto fermarsi, chiedendo che la tappa venisse annullata.

Eppure, dai loro dirigenti – che erano in contatto con la direzione di corsa – ricevettero l’ordine tassativo di continuare a spingere sui pedali. Gli organizzatori, forse anche perché a involarsi verso la probabile vittoria c’era proprio un francese – cioè l’idolo Richard Virenque, ottimo scalatore –, non soltanto scelsero di non neutralizzare la frazione, ma addirittura non vollero modificare nemmeno il protocollo, lasciando che le premiazioni e i festeggiamenti, con tanto di musica, majorette e Virenque portato in trionfo, si svolgessero come se nulla fosse successo. E invece si era appena consumata una delle pagine più nere – se non la peggiore in assoluto – della storia del Tour: evidentemente, a quei tempi, ad assumere sostanze proibite non erano soltanto gli atleti, ma l’intero circo, a cominciare dal direttore e dai suoi più stretti collaboratori, salvo rare eccezioni.

«Bisogna essere più sensibili», commentò l’indomani Marco Pantani. «Ciò che è successo è più importante di qualsiasi gara. Ieri ho visto vergognose scene di giubilo. Cazzo, è morta una persona!». I padroni del vapore tentarono poi di metterci una pezza il giorno successivo alla tragedia. A essere infine neutralizzata fu dunque la sedicesima tappa, che conduceva Tarbes a Pau e che si trasformò in una lenta e mesta passerella, conclusa col successo – simbolico – di tutti gli atleti della Motorola di Fabio Casartelli, e la bici che per prima tagliò il traguardo fu quella di Andrea Peron, che in quella Grande Boucle aveva condiviso le stanze d’albergo proprio col campione olimpico brianzolo.

I corridori odiavano il casco

Soltanto tre mesi prima, il ticinese Mauro Gianetti cadde pesantemente al Tour de Romandie ed ebbe salva la vita unicamente grazie al provvidenziale utilizzo del casco, accessorio che però, purtroppo, a quei tempi veniva adottato da pochissimi corridori, quasi unanimemente portati a considerarlo un ammennicolo inutile, oltre che fastidioso e scomodo. Addirittura, quando nel 1991 fu ventilata l’idea di renderlo obbligatorio, i ciclisti per protesta scesero addirittura in sciopero. E infatti, sul Portet-d’Aspet, Fabio Casartelli – come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi – non lo indossava. Lo avesse fatto, è quasi certo che quella caduta non avrebbe avuto esiti mortali. Addetti ai lavori e opinione pubblica, da quel triste giorno, cominciarono però ad essere almeno in parte sensibilizzati sui potenziali benefici che il casco avrebbe potuto portare al ciclismo.

Il percorso che infine condusse all’introduzione tassativa di questa fondamentale protezione sarebbe però ancora molto lungo. Dal governo mondiale del pedale – ossia l’Uci – fino al 2003 l’uso del casco era infatti soltanto raccomandato: fu purtroppo necessaria la morte del kazako Andrei Kirilev alla Parigi-Nizza di quell’anno per indurre le autorità sportive a renderlo obbligatorio, ma fino al 2005 si era ancora liberi di privarsene in prossimità del traguardo, se era posto in salita. Dall’anno seguente, invece, divenne proibito evitare di usarlo.

Malauguratamente, ciò non ha però impedito che numerosi altri drammi si consumassero in corsa negli anni recenti, ad esempio quello di Lambrecht (Giro di Polonia 2019) o quello di Weylandt (Giro d’Italia 2011), passando per quelli di Demoitié (Gand-Wevelgem 2016) e Drege (Giro d’Austria 2024) e giungendo naturalmente alle tragedie che hanno colpito gli svizzeri Gino Mäder (Tour de Suisse 2023) e Muriel Furrer (Mondiali di Zurigo 2024). Ed è di ieri la notizia del decesso del 19enne Samuele Privitera (del team di sviluppo della Jayco) al Giro della Val d’Aosta.