Per gli amici, e per chi c’è nato, si chiama Beagá: città che ha scelto di allargare gli orizzonti mentali visto che quello fisico le è oramai precluso
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Ho sempre tifato contro il Brasile del “joga bonito”, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato “Para Machucar meu coração” di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui.
Il suo nome è Belo Horizonte. Eppure, quando ci sei dentro, l’orizzonte non lo vedi, non c’è. Lo puoi solo intuire, da qualche parte, in mezzo a una selva di grattacieli, cemento e caligine. A volte nemmeno quello. Uno scherzo del destino che la città ha fatto a sé stessa crescendo a dismisura – in larghezza e soprattutto in altezza – fino a diventare la sesta più grande del Brasile. La prima, anticipando di oltre cinquant’anni la capitale Brasilia, a essere nata a tavolino, nel 1897, sulla falsariga di altre località dalle piante squadrate e geometriche, create ex novo, come Washington. Secondo il piano originario, Belo Horizonte non avrebbe dovuto superare i 200mila abitanti. Oggi è popolata da 2 milioni e mezzo di persone (quasi 5 se si considera tutta l’area metropolitana).
© Roberto Scarcella
Una mappa antica, datata 1895
All’epoca avevano preso una piana circondata da foresta e montagne, la Serra do Curral, e l’avevano riempita con un progetto che con il tempo, strabordando, è uscito dai binari prestabiliti. A rimetterlo in carreggiata ci ha pensato il sindaco di Belo Horizonte (e poi presidente del Brasile) Juscelino Kubitschek, con l’aiuto dell’architetto Oscar Niemeyer. Gli stessi due nomi indissolubilmente legati alla creazione da zero della futuristica Brasilia.
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Di quel periodo restano i grattacieli più riconoscibili, suadenti, sfrontati e arditi (la chiesa di San Francesco di Assisi, nel quartiere avveniristico – oggi come allora – di Pampulha, fu ritenuta talmente scandalosa dalla Chiesa che per anni si rifiutarono di consacrarla) di una città che ha scelto di allargare gli orizzonti mentali visto che quello fisico le era stato via via precluso, ormai in grado di comparire alla vista solo spingendosi ai margini della città, oltre il costruito e il costruibile.
© Roberto Scarcella
Belo Horizonte – per gli amici, e per chi c’è nato, Beagá (scritto BH, dalle due iniziali del nome) – e la sua gente avrebbero potuto soffrire, somatizzare questa condizione di cecità da gigantismo in contraddizione con il nome. Invece se ne sono infischiati, rendendo questa metropoli un luogo accogliente e leggero, attraversato da un’energia positiva che ti pervade e ti ricarica anche solo camminando per strada, nonostante il caldo, talvolta opprimente. Quando è troppo si può sorseggiare una bibita fresca a base di frutta locale con nomi tropicaleggianti come il cupuaçu, il cajá, il caju, la graviola, l’acerola e l’açai, oppure cercare sollievo in uno dei parchi cittadini, opere d’arte lussureggianti popolate da uccelli le cui piume paiono dipinte a mano.
© Roberto Scarcella
Belo Horizonte è una scoperta continua. Prosegui anche se non sai perché, attirato da questo ribollire di vita urbana, dall’idea che dietro ogni angolo si possa nascondere una pianta, una persona, un semplice adesivo o un momento che valga la pena di essere visto. Insomma, Belo Horizonte sembra suggerirti che qualcosa di bello, di strano, di degno della tua attenzione è sempre a portata di mano.
© Roberto Scarcella
Nel tennis club
E così è: che sia una scena di strada che un secondo dopo non ci sarà più o un palazzo che è lì da decenni. Non lo diresti mai, ma puoi ritrovarti a contemplare lampioni arancioni a forma di uomini stilizzati che tengono tra le mani – che a ben guardare non sono mani –, teste che non sono teste, ma paralumi. Fanno la loro parte – come e più di sempre – anche i venditori del mercato centrale, uno dei luoghi simbolo della città, e perfino un tennis club: il Minas, esclusivo in certi spazi, aperto a tutti nell’area buffet, con cibo squisito (ed economico) e una terrazza sovrastante una piscina e un giardino interno che ti rinfrescano solo alla vista. Dentro, un esercito di camerieri vestiti di tutto punto, con una capacità di essere insieme eleganti e formali e al contempo spontanei, familiari. Se persino uno dei luoghi solitamente più respingenti come un club di tennis altolocato ti fa sentire a casa, qualcosa vorrà pur dire, in una città che fa dell’atmosfera conviviale un vanto.
© Roberto Scarcella
Lampioni bizzarri e avveniristici, almeno allora
Non a caso Belo Horizonte è soprannominata la Capital dos Botecos, vale a dire la capitale dei bar. Ce ne sono oltre quattromila, circa 80 per chilometro quadrato, 178 ogni 100 milioni di abitanti. Tenendo conto delle proporzioni, nessuna città in Brasile può rivaleggiare con BH (San Paolo ha 78 bar ogni 100 milioni di abitanti, Rio 99; seconda è Florianopolis, con 150 bar ogni 100 milioni di abitanti). La concentrazione di bar aumenta in modo esponenziale nel quartiere di Savassi (il cui nome deriva da una panetteria fondata da italiani), ridenominato O triângulo das Bermudas: Entra e não sai quando sai!. Entri, ma non sai quando esci.
João Guimarães Rosa, scrittore nato a Cordisburgo, nel Minas Gerais, lo Stato di cui Belo Horizonte è capitale, disse: “Qui la gente non vive, ma convive”, centrando in pieno lo spirito della regione. Un altro letterato locale, il poeta Carlos Drummond de Andrade, ha invece scritto che l’anima del luogo è fatta di “montagne, poesia e pão de queijo”, le palline di pane al formaggio, grande orgoglio locale, un cibo semplice e delizioso che ormai si trova in tutto il Brasile (e non solo). Perché riempirsi gli occhi va bene e l’anima pure di più, ma vuoi mettere la pancia? Non a caso, una delle frasi più ripetute nel folklore locale, e usata anche per pubblicizzare la città, è: “A Beagá l’orizzonte è bello, il pão de queijo però lo è di più!”. Quando all’alba riparto verso l’aeroporto, destinazione Salvador, passo dal fornaio accanto all’hotel e ne compro un sacchetto. Sono ancora caldi, fumanti e profumati. Mentre la città scompare dietro di me e scorgo finalmente l’orizzonte non so scegliere.
Per fortuna non devo.